lunedì 13 marzo 2006

Da leggere -La tivù spiegata a mio figlio (pubblicità mediocre inclusa)

Il giro è più che altro un giro di soldi, anche se si fa un gran parlare di pubblicità creativa, di idee, di invenzioni, di arte. C’è qualcuno, in questo giro, interessato alla creatività, alle idee, alle invenzioni, all’arte (è pur vero che alcuni tra i primi manifesti pubblicitari alla fine dell’800 erano dipinti da Toulouse Lautrec, un pittore. Da allora, la pubblicità “artistica” vive ancora di rendita)? No, non c’è. O non c’è più. Contano solo i soldi. Più uno spot pubblicitario è mediocre, più sarà utile ripeterlo in tv. Ripetendolo più spesso la tv guadagna di più (uno spot di dieci secondi può arrivare a costare anche centomila euro).


Paolo Landi scrive così in Volevo dirti che è lei che guarda te -La televisione spiegata a un bambino, Tascabili Bompiani, 2006, Milano € 6,00.

Ho un figlio di nove anni e un nipote di sette. Qualche volta mi sono seduto a guardare la tivù con loro: errore che non si dovrebbe commettere, stando alle indicazioni di Landi, per non dare in pasto ai pubblicitari anche una persona con potere d’acquisto.

Le trasmissioni pomeridiane dedicate ai bambini sono stracolme di interruzioni pubblicitarie: è davvero un bombardamento cui è difficile sottrarsi, perfino con un sistematico zapping.

Per i bambini fino agli 8/9 anni, i più esposti e indifesi dal punto di vista cognitivo, questa endovena pubblicitaria può diventare un problema, come risulta da una ricerca dell’Apa:
Report The Apa Task Force on advertising and children, 2004 (pdf).

Ripensando alla mia infanzia (anni ’60 e primi ’70), devo ammettere che la pubblicità (in qualunque forma) era certamente meno presente e invasiva, e il branding non era così interstiziale. La tivù non trasmetteva 24 ore su 24 e i canali a disposizione eran pochi. Moltissimi, invece, i giardini e i campi intorno a casa.

Il problema di sovraesposizione da branding oggi c’è: è inutile negarlo. Il lavoro del pubblicitario si sviluppa in questo contesto sovraffollato e, tendenzialmente, contribuisce a nuovi, ulteriori accumuli. E’ chiaro che il problema della qualità creativa passa in second’ordine rispetto alle dimensioni quantitative della massa pubblicitaria, al giro di soldi (per dirla con Landi), agli effetti psico-sociali prodotti, nel breve, medio o lungo periodo.

Però.

Come creativo, è vero, non cerco di essere un “artista”, non mi interessa fare “arte” con la pubblicità: non mi ha mai sfiorato il pensiero. Mi accontento, come creativo, di salvaguardare una certa dimensione di gusto, buon gusto e intelligenza in ciò che faccio e propongo ai clienti.
Perché so che questo è l’unico strumento che ho per rispettare il consumatore finale, il pubblico: quindi, anche mio figlio e mio nipote. E questo indipendentemente dai soldi che sono sul piatto (oggi meno di ieri).

Insomma, come papà creativo mi impegno a non fare una comunicazione mediocre. Non sempre ci riesco ma almeno ci provo. Poi, spengo la tivù, prendo figlio e nipote e andiamo al parco in bicicletta.

Un intervento di Anna Oliverio Ferraris.

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