giovedì 19 dicembre 2024

La pubblicità è rivoluzione, Oliviero Toscani

Per me quando fotografo, non esiste nessuna differenza tra giornali e pubblicità. Per me esistono dei committenti intelligenti e dei committenti cretini. Ho capito subito, per mia fortuna, che per lavorare bene devi lavorare con chi è più intelligente di te. Non importa che sia un editore o un imprenditore. Se lavori per uno stupido, fallirai. Le opere dei migliori pittori del Rinascimento sono state commissionate da papi intelligenti. Con i papi stupidi nessuno ha prodotto capolavori. Ognuno ha i clienti che si merita. Per esempio, io non mi sono quasi mai meritato di lavorare per le agenzie pubblicitarie. I pubblicitari non conoscono neanche la grafica. Pochissimi grafici sono interessanti nel mondo della pubblicità. Cerri, Max Huber, Milton Glaser non erano pubblicitari canonici: erano pubblicitari nella misura in cui sapevano che cos’era un’immagine. Peter Knapp era completo, così come Alan Fletcher, il fondatore di Pentagram. Noorda era un grande, Vignelli un po’ modaiolo. La disciplina di Müller-Brockmann, il rigore di Jörg Hamburger. Non ci sono più grafici di questo livello. La tipografia ormai va bene a prescindere, è tutto computerizzato, più grafici entrano più bestie si vedono, avanti, signori, venghino. Sul web dov’è la grafica? Pochissimi siti, tipo quello del “New York Times”, hanno un’idea grafica forte e consapevole. Ma sono eccezioni, è nostalgia. I grandi grafici erano artisti: Depero, Brodovitch, di cui Truman Capote diceva che è stato per la grafica ciò che Dom Pérignon è stato per lo champagne, e che è morto in miseria. Geni dello spazio. Il “Corriere” oggi è un disastro grafico, non c’è uno spazio giusto. Instagram è inguardabile. I grafici delle agenzie sono ignoranti: ignorano. Un’ignoranza totale.

 Non è presunzione, ma se tu, fotografo, lavori con le agenzie non puoi pretendere di non essere un mero esecutore. Nelle agenzie ci sono i direttori creativi, i direttori artistici, i copywriter, tutti questi tizi che ti dicono cosa e come devi fotografare quello che decidono loro. Del tipo: “Fotografami con il grandangolo un dromedario contro un muro color indaco.” Mentre io sono un autore per conto mio, io offro arte applicata alle esigenze di un committente.

Quindi a un certo punto ho capito che a me interessava la grande distribuzione, preferisco il Maggiolino Volkswagen o la Citroën Due Cavalli alla Rolls-Royce. Mi piacciono i grandi marchi industriali. Se fossi stato un designer, avrei voluto disegnare la t-shirt bianca Fruit of the Loom e i jeans Levi’s 501, per intenderci. Altro che Capucci, Dior e l’alta moda. Vengo dalla generazione dei jeans, a me interessava fotografare l’espressione della mia generazione; ruvida, blu, da strada. L’alta moda mi faceva soltanto ridere, fotografarla era comico.

Non so se Maurizio Vitale di Jesus Jeans sia stato più intelligente di Capucci, per dire, ma sono sicuro che Maurizio Vitale è stato più aperto al futuro. Aveva i succhi gastrici particolarmente sviluppati. L’avevo conosciuto nel 1967, quando avevo convinto “Vogue” ad allestire uno studio fotografico all’interno della redazione milanese, in piazza Castello. Un giorno, dalla finestra del secondo piano, vidi entrare nel cortile una Ferrari rossa. Dall’abitacolo smontò un ragazzo. Salì, mi si presentò, mi disse che mi ammirava e che anche a lui sarebbe piaciuto fare il mio assistente.

“Tu vuoi fare il fotografo per provarci con le modelle?” gli chiesi io a bruciapelo.

Mi fu subito simpatico perché non negò. Anzi, rispose: “Be’, anche per quello, sì.”

Diventammo buoni amici.

La sua famiglia era proprietaria del Maglificio Calzificio Torinese, che aveva tra i propri marchi Robe di Kappa. Suo padre si era ritirato o era morto, non ricordo. Però mi ricordo che secondo Maurizio il direttore, un certo Lattes, cercava di tenerlo lontano dall’azienda. Lo considerava troppo eccentrico, era semplicemente più giovane.

Io gli suggerii di produrre blue jeans ma lui mi rispose che l’impresa si occupava di intimo, maglie della salute, cose del genere.

Lanciò un marchio di costumi da bagno, Beatrix, e io gli curai la campagna promozionale. Ma i costumi non erano pronti per il giorno dello shooting. Allora proposi a Maurizio di fotografare un sedere abbronzatissimo se non per la sagoma pallida di una mano. Una versione aggiornata e carnale della mia vecchia tecnica “fotogramma”. Vitale, che le belle donne le notava, mi disse che una loro centralinista aveva un sedere eccezionale.

All’epoca non c’era Photoshop, così dissi a quella centralinista: “Vorresti andare una settimana in vacanza al Club Méditerranée col tuo fidanzato?”

“Be’, perché no?” rispose lei.

“Però c’è una condizione,” dissi. “Mentre prendi il sole, il tuo fidanzato deve tenere costantemente una mano sul tuo sedere.”

Tornò dalle vacanze con l’impronta proprio come me l’ero immaginata. Una bella manata bianca sul culo nero. Ecco fatta la foto.

Ma io continuavo a tartassarlo: “Maurizio, devi produrre jeans: classico, cinque tasche, denim, blu. Fidati.”

“Mi piacerebbe, Oliviero, ma te l’ho detto che in azienda non me lo consentirebbero.”

Un giorno del 1972 Vitale mi telefonò a New York e – non so cosa fosse successo, là in azienda, cosa fosse cambiato – mi disse: “È arrivato il momento dei jeans, si parte.”

Mi raggiunse a Manhattan e uscimmo a festeggiare. Camminammo per la 57esima, poi imboccammo Broadway. Bisognava trovare un nome per i jeans. Non ci veniva in mente nulla di buono. Arrivati a Times Square, vidi l’insegna luminosa del musical Jesus Christ Superstar. “Maurizio, eccolo lì, il nome,” gli dissi io.

“Ma quale, scusa?”

“Jesus Jeans. JJ.”

“Sei picio?”

All’inizio lui era un po’ perplesso. Gesù era un personaggio delicato, e poi rischiavamo di violare il copyright del musical. Ma io lo convinsi: non avremmo violato un bel niente, se non il moralismo borghese.

La prima foto promozionale ritraeva un tizio tale e quale a come la gente si figura Gesù Cristo. Caucasico, scarno, giovane, con barba e capelli lunghi. Si apriva la camicia sul petto, da cui spuntava una collanina con il crocifisso: un’immagine molto banale. Seconda foto di promozione: una patta dei jeans aperta, da cui spuntavano alcuni peli pubici, non si capiva se maschili o femminili. Lo slogan recitava: “Non avrai altro jeans all’infuori di me.”

Ma io non ero ancora soddisfatto. Cercavo l’immagine speciale, quella che sarebbe rimasta più famosa. Maurizio Vitale aveva il bel vizio di sfogliare i giornali in viaggio, di strappare le pagine più interessanti e di portarmele tutte accartocciate. Fumetti, giornali porno, soprattutto riviste di viaggio. Un giorno arrivò nella mia casa di Milano, tirò fuori dalla sua cartella un grumo di pagine accartocciate, cominciai a guardarle e fra di esse c’era la foto di una mischia di rugby nel fango, dove i pantaloncini erano incollati al sedere dei giocatori, un ammasso di fondoschiena bagnati. In particolare, un rugbista, di spalle, aveva i pantaloncini appiccicatissimi, come cuciti a pelle; davano risalto alla linea tra le due chiappe.

Era l’epoca in cui stavo con la Jordan, quindi le chiesi di indossare i suoi hot pants. Cominciai a tirarli in avanti, per farli diventare più aderenti che potevo. Poi fissai i pantaloncini con delle spille da balia. La foto di quel culo del figlio della Madonna, in vera pelle di jeans, era accompagnata dallo slogan: “Chi mi ama mi segua.”

Per diffonderla a livello nazionale, Vitale ingaggiò un’agenzia di nome Italia, con sede sotto i suoi uffici di via Carducci. Quelli che ci lavoravano erano tutti giovani e socialisti come lui. Il titolare si chiamava Emanuele Pirella. Dato che i crediti vengono riconosciuti a chi si occupa della distribuzione, è passato il messaggio che la campagna fosse loro. Naturalmente le cose non stanno così. Per intenderci, lo slogan più dissacrante che poi avrebbe partorito quell’agenzia sarebbe stato qualcosa come “O così o Pomì”.

Comunque sia, fu uno scandalo. Avevamo tutti contro, che bellezza! Il 17 maggio del 1973 mi telefonò Vitale: “Compra il ‘Corriere’.” L’editoriale in prima pagina di Pier Paolo Pasolini s’intitolava: Il “folle” slogan dei jeans Jesus. L’articolo sarebbe finito nella raccolta Scritti corsari, col nuovo titolo Analisi linguistica di uno slogan. Lì mi resi definitivamente conto che la pubblicità non era solo pubblicità. Cioè, se sapevi farla, se capivi qual era il suo potenziale, con la pubblicità potevi raccontare il mondo, cambiare il mondo, forse più di quanto avresti potuto fare con il giornalismo. Le canzonette, come dicevo, le sentono tutti, le immagini le vedono tutti, le cinque parole di uno slogan le leggono tutti, e, quando canzonette e immagini e slogan sono consapevoli del proprio inevitabile contenuto ideologico, be’, c’è da divertirsi.

Ma forse lo dice meglio Pasolini. Ecco un brano di quel suo articolo:

Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei “jeans Jesus”: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere. Si veda la reazione dell’“Osservatore romano” a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po’ fatuo, l’articolista dell’“Osservatore” intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. [...] Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans “Jesus” è una spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando, per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.

C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni. [...] Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo in cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi, presumibilmente, quello dell’intero mondo tecnologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone “Cristo super-star”): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività.

 
Ne ho fatte di tutti i colori Vita e fortuna di un situazionista, Oliviero Toscani, La Nave di Teseo, 2022.

sabato 7 dicembre 2024

How to write better, Ogilvy & Mather

Non so voi, ma un copysauro come me letteralmente gongola quando ha l'occasione di mettere le mani su un librino come questo. Datato 1978, How to write better è stato scritto da due dipendenti di Ogilvy & Mather New York: Kenneth Roman (account executive) e Joel Raphaelson (copywriter, a cui si debbono i famosi adattamenti degli house ad Ogilvy, le cui headline cominciano con "How to...")

Librino: How to write better scritto da Ken Roman e Joel Raphaelson, per Ogilvy & Mather, 1978

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il booklet era nato per uso interno dell'agenzia e per i clienti, ma ebbe così tanto successo che gli autori lo svilupparono fino a farlo diventare un vero libro, punto di riferimento per il business writing: Writing that works How to communicate effectly in business.

Qui vi lascio il racconto della genesi del libriccino, voluto in primis dallo stesso David Ogilvy. Le parole sono di Ken Roman e sono tratte dal testo che ha scritto in memoria di Joel Raphaelson (su Facebook).

"David Ogilvy durante una riunione del consiglio di amministrazione mi disse: "Ken, voglio che tu aumenti il livello di scrittura degli account in tutto il mondo." Gli incarichi venivano spesso formulati in termini cosmici. Non sembrava così difficile. Andai alla libreria Scribner qui accanto per prendere un libro sulla scrittura da inserire nei nostri programmi di formazione, ma trovai solo Gli elementi di stile di E.B. White. Una guida classica, che però non trattava gli scritti che facevamo ogni giorno - promemoria, relazioni di conferenze, rapporti sulla concorrenza, raccomandazioni, eccetera -. Così ho redatto un documento che delineava le caratteristiche di questi scritti aziendali e l'ho inviato ai migliori copy dell'agenzia. 

Le modifiche di Joel sono state di gran lunga le migliori. Le ho inserite in una bozza finale e gli ho chiesto di collaborare a un opuscolo per il programma di formazione. Quando mi ha sorpreso con un rifiuto, l'ho cooptato, dicendogli che il suo nome sarebbe stato sulla copertina come coautore. 

Un art director ha trasformato How to Write Better: The Ogilvy & Mather guide to writing effective memos, letters, report, plans and strategies in un bel libro che inviammo al personale e ai clienti. 

Ogilvy lo ha elogiato in una nota dello staff. “Una buona scrittura non è un dono naturale, bisogna imparare a scrivere bene. Ecco 10 suggerimenti: (1) Leggi il libro di Roman-Raphaelson sulla scrittura, leggilo tre volte”.

Il nostro piccolo opuscolo ebbe un tale successo che lo modificammo e lo ampliammo in un libro sulla scrittura aziendale in generale e trovammo un editore in Harper & Row. Giunto alla sua terza edizione, Writing that works ha venduto oltre 200.000 copie e continua incredibilmente a vendere senza che noi muoviamo un dito. 

Joel di tanto in tanto si chiedeva se il libro fosse stato ordinato da una scuola di economia cinese. Joel è uno scrittore migliore di me. Il libro non sarebbe stato altrettanto bello senza di lui. Non avrebbe potuto farlo senza di me. Ha proposto spunti freschi come “Non borbottare” e analogie vivaci come Rodin che descrive come creare un elefante da un blocco di marmo: Prendi uno scalpello e togli tutto ciò che non è un elefante..." 

Qui trovate il pdf da scaricare gratuitamente: archive.org Buona lettura!

 “Tools, you fools! Not rules.”

 

PS

Grazie al sito brockel press per aver messo a disposizione il pdf.