Risponde Pasquale Barbella.
Come mai in Italia la figura del creativo pubblicitario è ancora poco chiara, approssimativa, oppure mitizzata?
Il guaio principale della pubblicità è che chiunque può farla. Basta avere i soldi, ed eccoti sui giornali o alla televisione. Produci prosciutti, cyclette, materassi? Paghi, vai in tv con un’aspirante modella e vendi la tua merce, nel bel mezzo di un film di Donald Sirk o Raffaello Matarazzo. Il “creativo pubblicitario” è un optional. Avere un’agenzia strutturata fa più figo che vendere in diretta come il materassaio, purché si adegui alle volontà del bocconiano di turno. La domanda è: chi sente davvero bisogno di affidarsi alla progettualità di terzi? Non puoi costruire una chiesa senza un architetto, né affrontare un processo senza un avvocato, né curarti la piorrea senza un dentista; ma puoi benissimo vendere minestre e bulloni senza intermediari, o usarli imponendogli il tuo punto di vista. L’Italia, si sa, è un paese dove anche i carciofi hanno un’alta opinione di sé.
Cosa fanno i pubblicitari italiani per migliorare la propria credibilità?
Tendono a peggiorare. Peggiorando, risultano più credibili presso i propri clienti.
Il compromesso è il kit di sopravvivenza più facile ed efficace.
Ma qual è il punto cruciale della querelle? Creatività contro hard selling?
Non vedo un conflitto automatico tra creatività ed efficacia. Del resto, prima ancora di pormi un problema estetico, mi pongo un problema morale. Tu, azienda, scuci dei quattrini e accedi alla visibilità nazionale. Giornali. Televisione. Radio. Manifesti. Posta. Internet. Parli e ti vedono, ti leggono, ti ascoltano, ti subiscono milioni di cittadini. Non hai il diritto di dire, mostrare, ripetere stronzate. Nei confronti del paese, al quale ti stai rivolgendo con potenti megafoni, hai dei doveri, non solo dei diritti. Hai il dovere di non scocciare, di dare il meglio di te, di produrre comunicazione ragionevolmente professionale.Non hai il diritto di trattare il tuo pubblico come un branco di buoi.
Ma la pubblicità italiana è davvero peggiore del Grande fratello o dell’Isola dei famosi?
No, ma è mediamente allo stesso livello. Cinica, sfrontata, scurrile.
Perché dovrebbe essere migliore?
Perché, alla lunga, la merda non serve a nessuno. Nemmeno a chi la fa: prova a chiedere ai tuoi vicini di pianerottolo quante e quali campagne si ricordano. Questo paese, a parer mio, ha bisogno di un solenne sciacquone.
Uno sciacquone politico?
Prima di tutto mentale. Non è lecito, né produttivo, continuare ad adagiarsi nei cliché e nelle furberie. Dove sono i giovani imprenditori, i giovani manager? Hanno letto La chiave a stella di Primo Levi, o soltanto i manuali di marketing?
E i creativi, hanno letto La chiave a stella?
Non tutti, maledizione. Ho avuto colleghi, giovani e meno giovani, che non conoscevano nemmeno maestri del nostro stesso settore come Gossage o Saul Bass.
Che cosa bisogna fare?
Crearsi una coscienza critica, etica e storica della comunicazione: studiare, capire meglio la differenza tra Helvetica e Baskerville, saper individuare un insight rilevante, saper distinguere tra farsa e umorismo... Dotarsi, insomma, di un bagaglio professionale più umanistico.
Come sarà la pubblicità italiana tra cinque anni?
Migliore. Detesto il pessimismo, perché non produce null’altro che se stesso.
Dal sito dell'adci potete scaricare l'ultimo Latore della presente, da cui ho estrapolato parte dell'intervista a Pasquale Barbella.
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