Preoccupandomi poco di dire cose intelligenti e approfittando della posizione franca di copywriter freelance, rispondo alla richiesta di luca che mi sollecita a intervenire sul tema: il blogging uccide il planning? Probabilmente andrò fuori dal seminato.
Il tema, se n'è accorto lo stesso luca, è “roba” da chi se lo può permettere: da inglesi, appunto, che hanno creato il planning alla fine degli anni '60 e hanno una “scuola” con la esse maiuscola.
Io non so se (qui in Italia) il blogging uccida il planning né se stia nascendo una generazione di planner “aggettivali” formatisi con e sulla blogosfera. Son d'accordo con valerio quando dice che il blogging non può sostituire il planning: è come se un blogger che posta immagini di belle campagne pubblicitarie nel suo blog credesse di essere un bravo creativo. Come per tutti i mestieri, bisogna studiare sui libri e sporcarsi le mani sul campo (“farsi il culo”, “fare la gavetta”, come si diceva una volta).
Io non penso che il blogging uccida qualcosa: il giornalismo, le professioni, la letteratura, il buon gusto, l'intelligenza. Penso ai blog come ad una opportunità di espressione, di dialogo e di conoscenza. Grazie a qualche blog curioso ho potuto accedere a informazioni che difficilmente o molto faticosamente avrei acquisito da solo. Grazie ai blog ho conosciuto persone.
Con il blogging, certo, può aumentare la fuffa in circolazione; può crearsi un facile, volatile mercato per il cool; può crescere l'illusione di credersi “qualcuno” perché si riprende il post di un guru e via peggiorando... Ma, come insegnano i teorici della società digitale (prossima ventura), tutto finirà per consolidarsi intorno ad alcune idee più partecipate di altre che sono destinate a scomparire. Giusta fisiologia.
Ora torno al nocciolo.
La pubblicità italiana ha bisogno del planning? Perché ancora oggi, anche in agenzie grandi, il planner non è presente? Perché il capitolo italiano dell'apg è ancora fermo ai blocchi di partenza?Perché i planner italiani che bloggano sono pochi e tutti giovani?
Non so che rispondere. Forse perché in Italia persiste il mito del genio creativo deus ex machina (retaggio pubblicitario che ci appesantisce dai tempi della réclame e del cartellonismo ottocentesco). Forse perché siamo generalmente ignoranti, superficiali e presuntuosi. Forse perché abbiamo paura di perdere potere o posizioni di privilegio. Forse perché non pensiamo abbastanza alla nostra professione nella sua totalità, nella sua possibilità di autorevolezza e responsabilità sociale (e non mi riferisco al codice iap).
Da assiduo frequentatore della rete ho comunque constatato che i planner che bloggano sono molto più numerosi dei creativi che lo fanno (che spesso sono “sbarbati” o aspiranti che strillano “chefigo” per l'ultimo viral o ambient visto in rete). Questo, comunque, è un buon segno per i planner: denota curiosità, apertura, voglia di confrontarsi.
“Noi” creativi, invece, crediamo ancora di possedere in esclusiva il santo graal della creatività; siamo gelosi delle nostre ideuzze che durano 2 flight al massimo. Siamo sempre un po' invidiosetti gli uni dei successi degli altri. Pensiamo di guardare lontano ma, sempre più spesso, produciamo cose discutibili non tanto (o non solo) dal punto di vista esecutivo ma anche (soprattutto) dal punto di vista strategico e di impatto sul pubblico.
La qualità spesso latita. E' diventata un di più: un ingombrante optional. Si preferisce lo shortcut del sensazionalismo, dell'effettaccio, dell'approssimazione spettacolare. Ma, è anche vero che la responsabilità non è solo da una parte: dalla parte delle agenzie. Ci sono aziende e livelli di management non sempre aperti e illuminati.
Come ha sottolineato di recente Maurizio Sala, parlando a Spot X dell'arretratezza culturale delle agenzie mainstream legate al modello classico della pubblicità, si tratta di un percorso appena cominciato e lungo:
che riserverà belle sorprese che si chiamano aumento dell'efficacia, riduzione della spesa rispetto ai modelli abituali, coinvolgimento durevole del consumatore che -entrando in relazione con l'azienda attraverso canali nuovi e coinvolgenti- riaccenderà in sè stesso quella "passione" per la comunicazione che oggi si sta spegnendo lentamente, assopita da quantità industriali di messaggi che sostanzialmente sono gli stessi ai quali il pubblico è esposto da più di vent'anni. Un lasso di tempo che fiaccherebbe qualunque modello comunicativo, anche il più brillante."
Più che creare una nuova associazione (dal basso, trasversale e comunitaria quanto si vuole), forse sarebbe più pratico e fruttuoso “costringere al dialogo” tutte le istituzioni attuali: che si parlino tra loro Assocomunicazione, Aiap, Adci, Upa, Ferpi, Assoweb, Unicom, Adicom, etc. I modi sono da inventare ma l'obiettivo già c'è ed è chiaro: trovare un nuovo soddisfacente linguaggio con il consumatore (meglio se col suo aiuto).
Per tutti, la parola d'ordine dovrebbe essere: contaminazione, come suggerisce il kamikaze.
(E qui chiudo, per ora.)
2 commenti:
Anche io soffro molto nel vedere solo i giovani bloggare e solo gli esperti stare lì a sentenziare e a citarsi uno con l'altro.
Manca la cultura, l'associazionismo e la proattività.
Sono felice nel vedere tante iniziative in giro a cui, se riesco, darò una mano, ma di certo prese di coscienza come la tua dovrebbero essere più frequenti, soprattutto tra i blogger che fanno comunicazione.
Un saluto.
quoto e metabolizzo...
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